Maschio di ceppo autoctono di anatra muta. Foto di Andrea Mangoni.
Quando ero bambino, uno degli animali della fattoria di zio Fernando che mi spaventava di più era... un'anatra. Un enorme maschio di anatra muta, bianco e nero, che mi aggrediva tutte le volte che andavo a trovare lo zio e che si avvicinava soffiando minaccioso...
Quel grosso anatide mi è tornato in mente proprio in questi giorni, quando quasi per caso la mia strada e quella dell'anatra muta si sono incrociate nuovamente. Infatti, scorrendo le vecchie foto fatte l'anno scorso presso un allevatore di Camponogara, ho scoperto nell'angolo di una immagine un grosso maschio di anatra muta che presentava delle vistose caruncole nere. Cosa c'era di tanto speciale? Cerchiamo di capirlo.
femmina di ceppo commerciale in cova. Foto di Andrea Mangoni.L'anatra muta o di Barberia (Cairina moschata) è un grosso anatide che in natura popola le acque di alcuni bacini fluviali del Sud America, ma che dal XVI secolo fa oramai parte dell'ampia schiera di animali da cortile diffusi nel nostro Paese. Nonostante le sue origini, è un animale estremamente rustico che si è adattato benissimo ai climi europei; i maschi pesano all'incirca 3,5 Kg, le femmine 2 Kg. La principale differenza tra i sessi, oltre alla taglia e alle proporzioni corporeee, è data dalla presenza di vistose caruncole facciali più sviluppate nei maschi, e dalla presenza (sempre nei maschi) di un ciuffo erettile molto più sviluppato. Queste anatre non cantano, ma si limitano a soffiare: da qui il nome di “mute”. Le livree sono molto varie, dal bianco al blu, dal marrone al nero screziato di bianco.
L'anatra muta ha mantenuto un forte istinto alla cova, e se lasciata libero può deporre fino a due volte l'anno (che diventano 4 o anche 5 se si tolgono i piccoli neonati e li si alleva separandoli dalla genitrice). Possono deporre in un anno anche un centinaio di uova; a volte la femmina cerca come sito di deposizione un luogo piuttosto elevato, dal quale gli anatroccoli neonati si gettano alla nascita. L'incubazione dura fino a 5 settimane. Fin da piccolissimi, questi animali hanno poi delle forti unghie che li aiutano a muoversi in terreni accidentati. Le femmine tendono a volare piuttosto bene, mentre i maschi sono in genere diventati troppo pesanti per riuscirci.
femmina di anatra muta di ceppo autoctono. Foto di Andrea Mangoni.
Ora, di questi avicoli esiste da tempo un ceppo commerciale. E' più pesante, con le caruncole facciali rosse e corrugate, ciuffo più piccolo e con pulcini a piumino di vario colore. Esistono però ancora - ma è diventato molto difficile rintracciarli – animali ascrivibili ad un ceppo autoctono, che presentano caruncole in parte nere e più lisce, taglia inferiore, ciuffo ben sviluppato e pulcini dal caratteristico piumino giallo screziato di bruno scuro. Aver scoperto quindi, a pochi passi da casa, quello che sembrava essere un capo appartenente ad un ceppo piuttosto antico mi sembrava un'occasione davvero magnifica. Perciò decisi di tornare immediatamente a cercare di vedere se, ad un anno di distanza, la persona in questione avesse ancora l'animale.
Maschio di ceppo commerciale. Foto di Andrea Mangoni.Il signore in questione, gentilissimo, mi ha spiegato che il suo ceppo deriva da una femmina arrivata in volo nel suo giardino, cui lui aveva affiancato un maschio acquistato al mercato. Lui allevava i propri animali allo stato brado, il che significava totale libertà in campagna, compreso per ciò che riguarda alimentazione e riproduzione. Come mi resi conto cercando tra i campi dietro casa sua, il vecchio animale che avevo immortalato l'anno precedente non c'era apparentemente più, mentre invece erano presenti alcuni bellissimi capi dalla colorazione scura chiazzata di bianco, veramente molto belli e con magnifiche caruncole scure. Così mi feci coraggio e gli chiesi se fosse disponibile a cedermi qualche esemplare. Il risultato?
Il risultato è stato che stamattina, con mia somma gioia, il maschio della prima e dell'ultima foto di questo post, assieme ad una bella femmina, sono venuti a stare nel mio allevamento. Saranno ospitati nel prato sotto il vigneto, liberi, e potranno ripararsi sotto una tettoietta appositamente progettata per loro. In primavera, a Dio piacendo, potrò mostrarvi anche le immagini di tanti meravigliosi anatroccoli. Ciao!
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E' USCITO "IL POLLAIO PER TUTTI", IL NUOVO LIBRO DI ANDREA MANGONI!
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Primo piano di un maschio di ceppo autoctono. Foto di Andrea Mangoni.
I biscotti alla lavanda!! Foto di Andrea Mangoni.

Oramai diverso tempo fa, ho già avuto modo di parlare abbastanza diffusamente della lavanda (Lavandula sp.); ma torno a farlo volentieri dopo aver letto, sul blog di Zia Artemisia, la ricetta di alcuni biscottini che sembravano davvero deliziosi; QUI ne trovate la versione originale.

Per un caso del destino, i miei cespugli di lavanda, complice il clima mite di questo Novembre pazzerello, stanno ancora fiorendo... poco, per carità, ma quanto basta... Insomma, per farla breve, era un'occasione troppo ghiotta - letteralmente!! - per farsela scappare, così io e Roby abbiamo messo mano alla ricetta e alle pentole e abbiamo provato a fare queste meraviglie. Il risultato è stato assolutamente spettacolare! Per cui vado subito a condividere con voi questa ghiottoneria.

INGREDIENTI:

  • 1 cucchiaio abbondante di fiori di lavanda;
  • 100 gr di zucchero;
  • 210 gr di farina;
  • 1 uovo (ASSOLUTAMENTE da allevamento biologico!);
  • 150 gr di burro;
  • 1 cucchiaio di lievito in polvere;
  • 1 puntina di sale;
  • 1 spolverata di zucchero semolato bianco.

Artemisia metteva meno farina, e aggiungeva un petalo di rosa essiccato... ma noi abbiamo riscontrato che l'impasto restava un po' troppo morbido, mentre per il petalo di rosa non ne avevamo di profumati disponibili... magari riproveremo in primavera con i petali di rosa damascena. Per iniziare, si frullano i fiori con la farina e lo zucchero; quindi si uniscono burro ammorbidito, lievito e sale, amalgamando il tutto e aggiungendo l'uovo per ultimo. Una volta pronta la frolla, si lascia mezz'ora in frigo, quindi si stende e la si cosparge con lo zucchero semolato e si preparano i biscotti tagliandoli a mano (noi abbiamo fatto così) oppure mediante stampini. Quindi li abbiamo messi in forno caldo a 180°C per 10 minuti. Non appena dorati li abbiamo tirati fuori e messi a raffreddare.

Il risultato è stato assolutamente MAGNIFICO! Sono buonissimi, dei veri biscotti inglesi aromatizzati in maniera fantastica e delicata, fragranti al punto giusto e perfetti da accompagnare al thè o ad una tisana nei freddi pomeriggi autunnali. Provateli!!

I biscotti alla lavanda!! Foto di Andrea Mangoni.
Il casone di via delle Prete a Camponogara, ora scomparso. Foto tratta dal libro di Luciano Rocco, Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria.

Tra i tanti cambiamenti che il territorio del Veneto ha visto negli ultimi decenni, uno ha riguardato la quasi totale scomparsa di una tipologia di abitazione che aveva invece caratterizzato il paesaggio agreste delle campagne del veneziano, del trevisano e del padovano: il casone.

Le origini del casone si perdono nel tempo. La struttura semplicissima dei primi casoni di valle, due falde di tetto spioventi a formare un ricovero più o meno temporaneo, si è nei secoli arricchita sempre più, fino a trasformarsi in un modello abitativo di successo che ha funzionato senza particolari cambiamenti fino a metà del XX secolo.

Il casone ha, fin dalla sua origine, una struttura molto semplice. La sua caratteristica in assoluto più peculiare è il tetto, formato di fasci di cannuccia palustre (Phragmites australis) e paglia di grano disposti su una struttura in legno, a formare delle falde piuttosto inclinate per favorire lo scolo delle acque. Esteticamente questa caratteristica li rendeva probabilmente simili a certi antichi cottage inglesi. Quadrangolari nel padovano, più allungati nel trevisano, essi avevano nelle loro più recenti incarnazioni mura in mattoni che sostenevano il tetto e che contenevano gli ambienti abitativi, disposti a spirale nel padovano e linearmente nel trevigiano. Quasi sempre ad un piano, uno degli elementi fondamentali dei casoni era l'orientamento dato all'abitazione, fondamentale per garantire adeguati calore e luce, e soprattutto in base alle conoscenze sui venti dominanti, fattore questo di estrema importanza per un corretto tiraggio del camino: il rischio reale era infatti quello di incendio, provocato magari da frammenti di brace aspirati fino al tetto costituito di materiale vegetale. Ovviamente, queste strutture necessitavano per la loro stessa natura di costanti restauri e riparazioni, specie nella parte del tetto.

Un casone a due piani a Prozzolo. Foto tratta dal libro di Luciano Rocco, Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria.

Un tempo, la trave principale del tetto era in pioppo, e nel padovano era abitudine mettere a dimora uno di questi alberi alla nascita di ciascun figlio maschio, per avere, al momento del suo fidanzamento, una piante dalle dimensioni adatte per allargare la dimora familiare. In seguito però i tronchi che formavano la struttura principale del tetto del casone vennero ricavati da abeti rossi ed altre conifere, che grazie ai commerci della Serenissima venivano importati dalle Dolomiti e che si rivelavano estremamente preziosi grazie alle loro maggiori durata e resistenza contro gli attacchi degli xilofagi. Il rimanente legname che costituiva trama e ordito del legno veniva ricavato da olmo, pioppo, salice ed altre essenze autoctone.

Il bellissimo Casone Rosso di Piove di Sacco. Foto di Andrea Mangoni.Nel corso del XX secolo, poi, l'architettura dei tradizionali casoni finì per cambiare, così come il loro utilizzo. Infatti ben presto iniziarono a fare bella mostra di sé case che univano un'architettura più moderna e complessa pur integrando ed assorbendo elementi tipici del casone; ad esempio, in alcune case di campagna parte del tetto continuava ad essere costituito di cannuccia palustre, mentre il resto era fatto di coppi. Sia quel che sia, i casoni perdettero lentamente ma inesorabilmente il loro ruolo principale nel panorama delle costruzioni rurali, per lasciare il posto a case più solide e moderne, spesso costruite a due piani, con tetto in coppi. Dapprincipio relegati al ruolo di ricovero per attrezzi o animali, in seguito essi vennero completamente abbandonati e distrutti. Ora come ora, nel padovano sono rimasti non più di 6 casoni, 4 dei quali nel comprensorio di Piove di Sacco. E proprio in questa città è possibile ancora vedere e visitare alcuni casoni meravigliosamente conservati e restaurati; ma di questo parleremo in un prossimo post.

Le foto d'epoca dei casoni pubblicate in questo post sono tratte dal libro di L. Rocco, Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria (vedi bibliografia).

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Bibliografia

Baldan, L., Giulini, P., Monetti, P. (2005). Tecnica costruttiva del casone in "Natura e ambiente in Saccisica e dintorni". Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco.
Rocco, L. (2009). Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria. Racconti e immagini di Camponogara. Coop. Il Plaustro, Prozzolo.

Veduta d'epoca di Prozzolo di Camponogara dal campanile. Si possono notare diversi casoni, nessuno dei quali oggi esistente. Foto tratta dal libro di Luciano Rocco, Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria.

Più dell'85% dei dei bambini dai 2 ai 14 anni nel mondo è vittima di qualche forma di violenza, dalle punizioni corporali alle peggiori forme di abuso; 40 milioni sono abusati sessualmente, 1,2 milioni vengono trafficati, oltre un miliardo vivono in zone di guerra o conflitto, 218 milioni sono costretti a lavorare (quasi mezzo milione in Italia).

L'associazione Terre des Hommes con la sua campagna del Fiocco Giallo invita tutti a dire: “IO proteggo i bambini, SI’ alla prevenzione contro gli abusi” in occasione del 19 novembre, Giornata Mondiale per la prevenzione dell'abuso sull'infanzia. Contemporaneamente è possibile sostenere, fino al 22 novembre, la Campagna di Terre des Hommes donando 2 euro con un SMS al 48543 da cellulari TIM, Vodafone, Wind e 3, nonché da rete fissa Telecom Italia. Questa donazione si trasformerà in un'azione concreta in aiuto dei bambini vittima di violenza.

I fondi raccolti con la campagna saranno destinati a finanziare i progetti di lotta e prevenzione alla violenza sui bambini e, in particolare, le attività della “Casona”, il Centro di assistenza alle vittime di tortura di Terre des hommes Italia a Bogotà, unica struttura nel suo genere esistente in Colombia. Dal 2002 ad oggi ha soccorso oltre 4.000 persone, principalmente desplazados (profughi, sfollati interni), molti dei quali bambini. I pazienti vengono trattati con terapie olistiche di lungo periodo per poter riacquistare il proprio equilibrio e la fiducia nel futuro e nelle altre persone.

Promossa dalla Fondazione Summit Mondiale delle Donne di Ginevra la campagna quest'anno unisce quasi 800 organizzazioni non governative di 127 Stati. In Italia hanno raccolto l'invito oltre 130 siti e blog.

giovane esemplare di Sphaerichthys osphromenoides. Foto di Andrea Mangoni.

In acquariofilia gli Anabantidi sono sempre stati la mia grande passione. Oltre al Betta splendens, di cui ho già iniziato a parlare, ho cercato negli anni di allevare e riprodurre esemplari appartenenti ai più disparati generi, di solito con discreto successo. Uno dei miei desideri, però, era quello di riuscire a tenere il famoso gourami cioccolata (Sphaerichthys osphromenoides), un animale per me bellissimo ma che rappresentava una sorta di... sogno proibito: difficile da trovare in commercio, delicatissimo ed esigentissimo per quel che riguarda le caratteristiche dell'acqua e per la carica batterica della stessa, per anni su questo pesce e sul suo allevamento erano giunte notizie contrastanti. Addirittura la sua riproduzione sembrava avvolta nel mistero: oviparo od ovoviviparo, costruttore di nidi di bolle o incubatore orale? In ogni caso sembrava proprio che, per la sua delicatezza, fossi destinato a penare a lungo per trovare questi pesci.

Sphaerichthys osphromenoides. Foto di Andrea Mangoni.Lungo fino a 6 cm, il gourami cioccolata prende il proprio nome dalla colorazione color cioccolato scuro, ravvivata da strie verticali dorate. E' diffuso in un ampio territorio che comprende Malaysia, Borneo e Sumatra. Se immaginate che pesci così delicati in acquario in natura vivano in acque cristalline e purissime... Beh, vi sbagliate di grosso!! Questi animali sono stati trovati in ruscelli puliti, questo è vero, ma anche in pozze stagnanti eutrofizzate e persino nei canali di scolo dei campi coltivati e degli allevamenti di polli, spesso con concentrazioni di pesticidi da brividi! Eppure, questi gioiellini in acquario sembrano avere l'unica ambizione - come disse Dieter Vogt, se non sbaglio - di morire al solo guardarli storti! Appassionati di labirintici come Horst Linke sono ovviamente riusciti ad allevare questi pesci ed i loro congeneri, e persino a riprodurli con successo. In questo caso, i pesci venivano tenuti in acquari totalmente spogli o quasi, con pH pari a 4,5 - 5, 2-3 °dGH, cambi frequenti, sifonatura costante del fondo (importante perchè sennò si formano i batteri per la decomposizione degli avanzi di cibo), temperatura 26 - 28°C, filtraggio attraverso torba, ecc...

E qui mi vengono una serie di osservazioni in mente... ad esempio, chi sifona il fondo di uno scarico di acqua lurida di un allevamento per polli? O ancora, la carica batterica di una pozza fortemente eutrofizzata è davvero così bassa? Insomma, com'è che dovremmo allevare questi animali in condizioni così palesemente innaturali?

Sphaerichthys osphromenoides. Foto di Andrea Mangoni.

Per me, che sono da sempre un assertore dell'acquario inteso come un mini-habitat (quasi) indipendente, tutto questo è davvero quasi inconcepibile. Se da un lato venire incontro alle esigenze fisiologiche di un pesce è sacrosanto, credo sia necessario d'altronde trovare un modo di allevarlo che non risulti totalmente innaturale. In fondo, se in natura questi pesci colonizzano acque tanto diverse da loro, devono possedere in bagaglio potenziale di adattabilità notevole... forse - e dico FORSE - l'unica vera sfida è fargliela tirare fuori. L'idea che mi sono fatto è che questi animali siano soprattutto molto sensibili ai bruschi cambi di valori dell'acqua, e che reagiscano abbassando fortemente le loro difese immunitarie. Per questo è più importante che mai, al momento del passaggio da sacchetto di plastica ad acquario, fare un adeguato ambientamento aggiungendo all'acqua del sacchetto quella dell'acquario, in piccole dosi, e poi rilasciare delicatamente i pesci in vasca dopo una ventina di minuti.

Sphaerichthys osphromenoides. Foto di Andrea Mangoni.Il gourami cioccolata ha infine rivelato parte dei suoi segreti agli allevatori che con caparbietà l'hanno studiato. Ad esempio, si è infine scoperto come questo pesciolino si riproduce: è un incubatore orale, cioè la femmina, dopo la deposizione e la fecondazione delle uova, prende queste ultime in bocca e le tiene lì, ben protette, per due settimane (periodo nel quale essa cessa di nutrirsi). Alla fine di questo periodo essa rilascia i piccoli, lunghi circa 6-7 mm ma già in grado di nutrirsi di naupli di artemia ed altri minuscoli crostacei. Anche i pesci adulti (dai quali i piccoli devono essere allevati separatamente) hanno una forte predilezione per il cibo vivo, o almeno congelato, ma si adattano pure al granulato e al cibo in fiocchi. In teoria, si possono allevare gruppi di 5-6 esemplari in una settantina di litri d'acqua; i pesciolini diverranno persino territoriali, se si sentiranno a proprio agio.

Sia quel che sia, per anni i gourami cioccolata rimasero un sogno, almeno fino a quando non incontrai un eccezionale negozio di acquari, il D.A.M. di Selvazzano (Padova), i cui proprietari Mario e Michele sono prima di tutto grandi appassionati di acquariofilia, e non sono dei "pescivendoli". Tramite loro riuscii ad ottenere il mio primo gruppo di "cioccolatini", appena più grandi dell'unghia di un pollice ma già perfetti nella loro colorazione cioccolato scuro a bande dorate. Bellissimi, scivolavano nella vasca con eleganza, e dopo alcune perdite iniziali il gruppo continuò a vivere per molti mesi senza problemi di sorta. Purtroppo, forse a causa degli altri ospiti presenti in vasca, non riuscii ad ottenerne la riproduzione; fu un vero peccato. Poi passarono gli anni, si succedettero altri pesci, la vasca acquistò altri equilibri, ed infine trascorsero 3 anni in cui l'acquario ospito solo piante, pochi gamberetti ed altri crostacei. A parte i periodici rabbocchi d'acqua, non dovevo fare nulla: un vero mini-ecosistema. Anche l'arrivo di una coppia di pesci combattenti non variò di molto la situazione: avrei potuto lasciare i pesci senza dar loro cibo per settimane, e loro non ne avrebbero risentito. Poi, proprio pochi giorni fa, passando in un negozioi miei occhi sono caduti su due minuscoli, meravigliosi cioccolatini, abbastanza in forze ma un po' denutriti. Così, senza pensarci troppo, i due sono stati prelevati e rilasciati dopo un accurato ambientamento nell'acquario... i Betta sono stati trasferiti, per evitare che disturbassero troppo i nuovi arrivati, e gli Sphaerichthys hanno subito iniziato a girovagare e - gioia e gaudio! - a nutrirsi dei crostacei che colonizzano le alghe. L'unica accortezza che avrò sarà quella di effettuare i rabbocchi con acqua demineralizzata cui aggiungerò della torba per abbassarne il pH; per il resto, lascerò che gli animali vivano in maniera il più possibile simile a qella che avrebbero avuto in natura. Se poi dovessero essere una coppia...

Sphaerichthys osphromenoides. Foto di Andrea Mangoni.
Con pazienza si possono selezionare tipologia di animali molto belle anche senza per forza ricondursi ad uno standard di razza. Foto di Andrea Mangoni.
Ho parlato, nell'ultimo post, di come selezionare un ceppo avicolo e soprattutto della tecnica della selezione massale.
Se al contrario, per desiderio o necessità, il nostro scopo è quello di migliorare alcune caratteristiche genetiche o eliminarne altre, la strada che ci permetterà di arrivare più rapidamente a dei risultati interessanti è quella della riproduzione in consanguineità o inbreeding, con la conseguente creazione di un vero e proprio albero genealogico che permetta di conoscere gli ascendenti di ogni esemplare del nostro allevamento. Si utilizzano allo scopo il linebreeding ed il closebreeding.
Il primo prevede l'accoppiamento tra animali non troppo strettamente imparentati tra loro, mentre il secondo vede la formazione di coppie fortemente consanguinee (padre-figlia, madre-figlio, fratello-sorella). Ovviamente in entrambi questi casi vi sarà un aumento costante della consanguineità, che dovrà essere seguito con molta attenzione dall'allevatore. In particolare, se il fine è quello di migliorare alcune caratteristiche di razza, si dovranno avere ben chiare le leggi dell'ereditarietà che si applicano a quei caratteri particolari; allevare a casaccio senza la minima nozione di genetica in questo caso significherebbe veder scomparire il proprio ceppo in capo a poche generazioni. Qual'è in questo caso la strategia migliore, allora? E' probabilmente il caso di suddividere i propri animali in due o tre gruppi di riproduttori costituiti da un maschio e 5-6 femmine, se possibile non troppo strettamente imparentati fra loro. Quindi negli anni alleveremo separatamente entrambe le linee riproducendo i capi in stretta consanguineità, cercando di accrescere a due il numero di maschi di ciascuna linea, magari allevandoli in recinti separati dalle femmine, e mantenendo nel contempo un capo della generazione parentale e d uno invece scelto tra i migliori nati dell'anno; quindi, dopo 4-5 anni, potremo incrociare le due linee, mettendo il maschio più vecchio dell'una assieme alle femmine più recenti dell'altra e viceversa; in questo modo potremo ricominciare daccapo il nostro lavoro di selezione, mantenendo sia la purezza del ceppo sia un livello di consanguineità accettabile.
Vorrei far notare infine come moltissimi allevatori si lanciano alla ricerca di ideali di perfezione estetica che non tengono conto della robustezza e della vitalità dei propri capi. Che senso ha allevare polli che diventano campioni d'Italia, ma che in seguito non riescono a fecondare le proprie uova, o ne depongono un numero risibile? O che si ammalano a solo guardarli storti? Eppure non è insolito vedere cose del genere. Per questo il mio suggerimento è e rimarrà sempre quello di cercare prima di tutto di avere animali SANI e ROBUSTI, selezionando queste doti anche a scapito di qualche caratteristica estetica; e se avete la possibilità di allevare animali poco in standard, ma magari provenienti da ceppi antichi, FATELO!! Con la selezione potrete probabilmente recuperare i caratteri desiderati, ma il patrimonio di diversità genetica che quei capi rappresentano per la razza non potrà più essere recuperato, una volta perduto.
Alla fine, alla signora mantovana ho consigliato di provare la strada della selezione massale, o, in alternativa, la formazione di due linee da reincrociare tra loro ogni due o tre anni; la grande variabilità genetica del suo gruppo di riproduttori glie lo consente. In ogni caso, comunque, non dovrà rinunciare a conservare i bei galli che le donò sua suocera - e direi che per il momento questo può essere considerato già un bel traguardo!! Di certo, sull'argomento “selezione” avremo modo di ritornare più volte. Alla prossima!


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AVICOLTURA E BIODIVERSITA': LETTURE PER SAPERNE DI PIU'

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Cercate sempre di partire da un gruppo costituito da più femmine e maschi, mai da una coppia sola. Foto di Andrea Mangoni.
La nuova arrivata in tutto il suo splendore: Virgola!! Foto di Andrea Mangoni.

L'autunno arriva anche quest'anno, finalmente. Dico finalmente perchè a me, personalmente, piace sempre molto, con tutte le sfumature del dorato e dell'arancio degli alberi e della frutta che contrastano bellamente con il verde scintillante dei prati e col grigio della nebbia.

L'autunno porta al solito tempi di cambiamenti. Le galline, dopo esser state rinchiuse nei recinti durante l'estate, hanno iniziato a godere di nuovo della campagna. A turno, ogni giorno un recinto differente viene aperto e i suoi occupanti prendono possesso del prato e del frutteto, tornando a cercar cibo contente sotto i cespugli di alloro e gli alberi di caki, ingozzandosi di erba fresca e di vermicelli etratti con lunghe ed operose manovre di razzolamento. A turno, sì, perché altrimenti i galli si massacrerebbero tutti tra loro... purtroppo bisogna tenerli separati.

Ancora la piccola Virgola! Foto di Andrea Mangoni.Ma non è l'unica novità, come avrete capito dalla foto iniziale... Abbiamo un nuovo cagnolino, anzi, una nuova cagnolina!!! Si chiama Virgola (mio padre la chiama Diana, ma vabbè...), è una meravigliosa bastardina e ci tengo a precisare immediatamente una cosa importante: LA SUA CODA NON E' STATA TAGLIATA!!! Virgola proviene da una famiglia di cagnetti (di cui fa parte anche Fritz, uno dei miei botoli, che tra l'altro è un suo prozio) che nascono già senza coda o quasi, solo con un breve moncherino. E' bellissima, con i suoi occhioni verdi e le orecchiotte da pipistrellina! Sta già dimostrando un'intelligenza vivacissima ed un carattere coccolone e giocherellone. Viste le dimensioni dei suoi avi, ci aspettiamo che rimanga piccola, una meravigliosa botolina da guardia e da compagnia... Speriamo sia anche una brava cacciatrice di topi, come la mamma ed il prozio!

Se possibile, cercheremo di non farla sterilizzare, isolandola in recinto per quei pochi giorni all'anno in cui andrà in calore... La nostra filosofia, per quanto possibile, è sempre quella del "non tagliare". Niente tagli alle orecchie, niente taglia alla coda, niente castrazione. Magari un giorno diventerà anche mamma, chissà... Abbiamo una grande fortuna, quella di vivere in un tessuto sociale ancora in parte ben legato alla ruralità, in cui le cucciolate di cagnolini di norma trovano in pochi giorni padroni ansiosi di accudirle. Nel frattempo non mi resta che sperare che cresca bella, forte e sana come gli altri due botoli che le stanno al momento facendo da "tutori", e con la quale ha già iniziato a formare un trio di moschettieri davvero bellissimo.

Pippo e Irene fuori. Foto di Andrea Mangoni.
maschio di betta splendens, varietà veiltail da negozio. Foto di Andrea Mangoni.
Acquari e vaschette hanno sempre girato per casa mia. Quando ero piccolo, ogni "bagnarola" possibile ospitava insetti d'acqua, pesciolini, crostacei e molluschi; poi scoprii una vecchia rivista di mia madre con un articolo su un pesciolino ai miei occhi bellissimo, che vantava un carattere da gladiatore unito alla bellezza di un kimono giapponese: era il pesce combattente, o Betta splendens.

Il combattente tailandese, così viene anche chiamato, ha in effetti stregato il cuore di moltissimi appassionati, tra cui quello di uno decisamente illustre: Konrad Lorenz, che gli dedicò delle belle pagine nel suo libro "L'anello di re Salomone". Eppure, sebbene da decenni diventato uno degli evergreen degli acquari tropicali d'acqua dolce, la storia del suo rapporto con l'uomo è molto più lunga e, cosa purtroppo che non sorprende, molto più sanguinaria.

Primo piano di un maschio di Betta splendens. Foto di Andrea Mangoni.Non ci è dato sapere se il Pla Kat, così come viene chiamato in Thailandia, sia originario proprio di quel paese o se sia invece autoctono della vicina Cambogia, o se ancora non sia frutto della paziente selezione di un allevatore cinese, per lo meno la sua forma a pinne a velo; quello che è certo è che tradizionalmente questi pesciolini sono sfruttati all'interno del circolo locale delle scommesse, nella poco invidiabile veste di... guerrieri. Infatti, proprio come accade per i galli, in Thailandia si usa scommettere sul risultato del combattimento fra questi animali. Bisogna sapere che due esemplari maschi di Betta splendens non possono generalmente coesistere nella stessa pozza d'acqua: essi infatti combattono strenuamente per difendere il proprio territorio. Il perchè di tanta aggressività si può spiegare in molti modi, ma probabilmente è dovuto all'ambiente in cui questi pesci (e diversi loro congeneri) si trovano a vivere. Essi sono infatti diffusi nelle risaie, nelle raccolte d'acqua temporanee della foresta, addirittura, a volte, nei buchi lasciati nel gango dai bufali, o nell'acqua che si nasconde sotto lo strato di foglie morte del sottobosco. Spesso, questi animali trascorrono la propria esistenza in pozze di una trentina di cm di diametro, contenenti pochi litri d'acqua. Tali ambienti precari hanno comportato due particolari caratteristiche di questi animali: l'aggressività ed il labirinto.

Il labirinto è uno speciale organo, presente solo nel gruppo di pesci cui fanno capo i Betta (gli Anabantidi), che permette a questi animali di respirare l'aria atmosferica. Per far ciò tali pesci devono salire periodicamente in superficie, per prendere delle vere e proprie "boccate d'aria"; se viene loro tolta questa possibilità, semplicemente... "annegano", per quanto possa sembrare strano per un pesce. Anche la grande aggressività è funzionale a tali habitat: abitando in pozze dall'esistenza precaria, piccole e non in grado di nutrire i piccoli di tutti gli adulti, solo i maschi più forti potevano riuscire ad accaparrarsi i favori delle femmine; gli altri concorrenti dovevano essere eliminati. In questo modo, quelle che erano caratteristiche utilissime in natura si rivelarono un'enorme attrattiva per i siamesi: infatti, dei pesci vivaci e colorati che combattevano tra loro e potevano passare la vitain una bottiglia senza troppo soffrire erano un oggetto di attenzioni più che logico, all'epoca.

Femmina azzurra di Betta splendens. Foto di Andrea Mangoni.Successivamente, con l'avvento dell'acquariofilia e delle varietà a pinne a velo o veiltail, come sono chiamate, questo pesce uscì dai circuiti dei tornei per entrare nelle case di milioni persone del mondo, raggiungendo per la sua forma e per i suoi colori una fama enorme e meritata. attualmente, le selezioni di questi pesci sono così distanti dalla specie selvatica da poter essere considerati davvero in tutto e per tutto degli animali domestici. Col tempo imparano a riconoscere le persone che si occupano di loro, avvicinandosi al vetro dell'acquario al loro arrivo. Certo, sebbene siano animali robusti necessitano di particolari attenzioni e non devono MAI essere tenuti in vasetti da marmellata o simili, come si vede in tanti negozi di acquari. A ciascun maschio andrebbe assegnata una vaschetta di almeno 10 litri d'acqua (può sembrare un volume minimo, ma in natura di norma questi pesci vivono in pozze di dimensioni anche inferiori), dotata di piante e con una buona copertura sopra: amano saltare! Inoltre, per la presenza del labirinto e per la loro necessità di respirare ossigeno atmosferico, il coperchio è indispensabile: aiuta a mantenere elevata la temperatura dell'aria sovrastante l'acqua, e ad evitare così raffreddori fatali. Mai allevare due maschi di pesce combattente assieme! Pare un consiglio scontato, ma molti principianti fanno quest'errore con la conseguente dipartita per combattimenti di uno o entrambi i pesci. Le femmine invece possono convivere in una stessa vasca; ad esempio, un acquario ben piantumato di 60-70 litri può ospitare un piccolo harem di un maschio e 5-6 femminucce. L'alimentazione non è un problema: cibi secchi, in scaglie, liofilizzati e granulati sono tutti ben accetti, ma in vista della riproduzione è meglio attrezzarsi con cibo vivo e congelato. Ma di questo parleremo nella seconda parte: la riproduzione di questi pesci è un fenomeno così affascinante che merita un post tutto per sè.

Un maschio a pinne corte o Pla kat. Foto di Andrea Mangoni.
Un ceppo avicolo tradizionale non sempre ha caratteristiche ben codificate. Foto di Andrea Mangoni.
Poche settimane fa una signora mantovana mi ha chiesto di risolverle un dubbio che le stava molto a cuore: è vero che è nocivo allevare per troppi anni in consanguineità un gruppo di avicoli? Sua suocera infatti le aveva lasciato un gruppo di polli, che lei per oltre dieci anni aveva continuato a riprodurre guidata dal buonsenso. Ora un amico di famiglia le aveva consigliato di eliminare i suoi galli e di sostituirli con uno acquistato al mercato, perché a suo dire era ora di tagliare il sangue, pena avere animali di qualità scadente, addirittura carne non più buona da mangiare! La signora però era ovviamente molto indecisa - non aveva il minimo desiderio di perdere i suoi galli - e si era quindi decisa a chiedere consiglio a me. Così ragionammo brevemente assieme su alcuni punti importanti, visionai il suo ceppo di persona e le detti

Ci sono posti che esulano dalla semplice bellezza formale, e che finiscono con divenire parte dell'anima e dell'immaginario di coloro che li visitano. E' questo certamente il caso dei giardini seicenteschi di Villa Barbarigo a Valsanzibio, sui Colli Euganei.

Li abbiamo visitati per la prima volta, io e Roberta, 4 anni fa. Una vacanza dietro porta, qualche giorno passato da una località all'altra del padovano, a scoprire, vedere e gustare luoghi, cultura e natura. Ma a Villa Barbarigo ci siamo davvero perduti. Tra cancelli che portavano nel bosco, peschiere abitate da cigni curiosi, siepi potate al millimetro e prati selvaggi, Ci siamo completamente lasciati vincere dalla magia e dalla meraviglia di questo che uno dei più begli esempi di giardino simbolico presenti nel nostro Paese. E non vi tedierò nemmeno con la sua storia o sul modo in cui raggiungerla: tutte le informazioni utili le troverete nel sito ufficiale. Mi limiterò a lasciarvi alle foto scattate quel giorno di settembre, in attesa di potervene proporre altre, magari, più avanti e più recenti. Purtroppo allora non avevo la mia fida Olympus e300... la qualità delle immagini non è quindi delle migliori!

Dedico questo post ad una persona, Mimma Pallavicini, che col suo blog pochi giorni fa mi ha dato modo di tornare a vagheggiare con allegria su questa meraviglia, e sul periodo in cui la visitai. GRAZIE DI CUORE!!

Una rosa antica, forse la Bourbon Queen. Foto di Andrea Mangoni.

Ho già avuto modo di raccontare di come, qualche anno fa, l'incontro con l'anziana rosa veilchenblau patavina abbia stimolato la mia passione per le rose. Non per tutte le rose, sia chiaro; molte le trovo insipide, quasi noiose. Sono (queste ultime) soprattutto certe cultivar moderne; quelle che in genere riscuotono maggiormente le mie simpatie sono le rose antiche, così come le varietà botaniche e quelle selezionate nella prima metà del '900.

Alberìc Barbier in fioritura. Foto di Andrea Mangoni.Sono le rose dei nostri nonni, rose che spesso fiorivano una sola volta nell'arco dell'anno, ma con una generosità insospettabile e con profumi intensi ed avvolgenti che facevano aspettare con ansia il momento in cui, l'anno dopo, si sarebbero potute ammirare ancora. Sono le rose che facevano belli gli orti di campagna, le antiche corti contadine, le case patronali e le ville dei signori; sono le rose che facevano sognare i poeti e le dame. Molte di queste rose sono scomparse, decine di varietà che si sono estinte nel nulla o quasi, piante di cui si sono dimenticati nome ed ascendenze. Eppure, tante di queste piante sopravvivono ancora, magari nascoste tra le mura dei vecchi cimiteri, avviluppate ai ruderi di ville padronali abbandonate o nei giardini incolti delle aie ora silenziose di vecchie case contadine. E in questi anni, proprio nei confronti di queste rose si è spostata la mia attenzione.

Una casa abbandonata avvolta da un viluppo di edera e rose vecchie rampicanti. Foto di Andrea Mangoni.Prima dell'incontro con la veilchenblau, per me la rosa per eccellenza era quella ereditata dalla nonna Elvira, la vecchia e robustissima Queen Elizabeth; generosa come poche, bella, vitale. In seguito, dopo la scoperta delle rose antiche, ho iniziato a guardarmi intorno con occhi diversi. E così, ecco che lungo una recinzione compaiono come per magia una Alberìc Barbier ed una rosa antica che somiglia molto alla Boubon Queen; ecco che diventa evidente la bellezza di una rosa a fiore semplice nel cortile della nonna di mia moglie; ecco una rosa rossa esuberante, a fiore doppio, che avvolge una casa contadina abbandonata, intrecciandosi con un'edera secolare. Scoprire il nome di alcune di loro sembra impossibile; nessuno le ricorda più, non si trovano descrizioni o immagini. Che fare? Io, quando posso, cerco di moltiplicarle per il mio giardino. Certo non da seme (sarebbe impresa improba e poco fruttuosa con queste varietà), ma per via vegetativa. Così, armato di forbici, prelevo i rami destinati a diventare talee. Al temine dell'estate ed in autunno si possono fare talee legnose, con rami dell'anno dalla base legnosa e ricchi, in basso, di gemme dormienti. Sarà a livello di questi nodi che la talea emetterà le sue radici. Potrà essere utile spolverare la base con un'ormone radicante. Le talee dovranno essere lunghe almeno tre o quattro nodi, e sarebbe bene eliminare in esse tutte le foglie tranne il primo paio in alto. Vanno interrate per metà in un vaso, riempito con terriccio composto per metà da sabbia e per metà di humus, e collocate in un luogo luminoso ma che non riceva la luce diretta del sole. E' importante che esse vengano ben annaffiate, e che il terriccio venga mantenuto leggermente umido. Preparate in autunno, inizieranno a mostrare le prime foglie la primavera successiva, ma occorrerà un altro anno in vaso prima di piantarle a dimora (questo per dar loro maniera di irrobustire le radici).

Un'alternativa interessante alla moltiplicazione per talea è quella per innesto a gemma, o ancora la preparazione di una margotta; in ogni caso, ciò che conta sarà il risultato: riuscire a conservare nella loro bellezza e purezza quei fiori che hanno fatto sognare le generazioni che ci hanno preceduti.

La rosa rampicante della foto precedente. Si tratta probabilmente di una varietà dell'ottocento, la Gloire des Rosomanes. Foto di Andrea Mangoni.

Una Pieris brassicae su salvia. Foto di Andrea Mangoni.

Venerdì scorso, orto dei miei genitori, stralcio della conversazione con mamma.

-Andrea, vedi un po' cosa sono quei vermi, o bruchi, non so... sono sulle foglie di cavolo.

-(dopo aver osservato i bruchi in questione) Ah, sì, sono belli... sono bruchi di cavolaia.

-Se ti interessano prendili, 'ché sennò li faccio fuori, perché mi stanno mangiando tutti i cavoli.

-Ma non potresti lasciarli lì un altro po'? Tra poco fanno crisalide, non mangiano più tanto...

-...

-Lo prendo come un no, vero?

Foglia di cavolo trasformata in merletto dai bruchi di cavolaia. Foto di Andrea Mangoni.Ecco, è andata più o meno così. In effetti, spiegare a qualcuno che gli amati cavoli, cui ha dedicato cure e attenzioni per settimane, dovrebbero continuare ad essere mangiati da insolenti piccoli bruchi solo per poter vedere qualche farfalla in più in primavera, è un'operazione che di norma comporta qualche piccolissimo problema. E per di più le cavolaie sono davvero ancora abbastanza comuni, per cui... Però queste farfalline mi stanno sempre e costantemente simpatiche. Sarà perché sono tra le prime farfalle che ho inseguito a perdifiato nei campi, da bambino, sarà perché sono tra le prime specie a comparire in primavera, e tra le ultime a svanire con l'autunno...

Le comuni cavolaie sono farfalle appartenenti alla famiglia dei Pieridi, molto diffuse e legate nei primi stadi vitali principalmente a piante della famiglia delle brassicacee... quindi cavoli, cavolfiori, cappucci e compagnia bella. Pare che le mamme cavolaie siano irresistibilmente attratte nella scelta della pianta cui affidare le proprie uova da certe sostanze aromatiche prodotte proprio da questa famiglia di vegetali. In alternativa anche dei Tropeolum sono visti come potenziali nursery, ma i cavoli rimangono sempre la prima scelta di questi insetti... ragione questa del motivo per cui sono stati così ampiamente detestati da generazioni di orticoltori.

Bruco di Pieris rapae. Foto di Andrea Mangoni.I bruchi trovati da mia mamma sono gli stadi giovanili di Pieris brassicae, la cavolaia maggiore, la specie più grande presente da noi (tra i 5 ed i 6 cm di apertura alare). Vi sono erò ovviamente anche altre specie, come ad esempio Pieris rapae, più piccola e con bruchi di un tenero verde chiaro chiazzato di giallo, molto più mimetici di quelli della cugina maggiore. Anche questa specie in effetti frequenta il nostro orto, ma meno vistosamente e con minori danni per le verdure... Anche se in verità erano anni che non trovavo una nidiata così numerosa di cavolaie maggiori. questa è ovviamente la seconda generazione dell'anno; la prima si era sviluppata tra la primavera e l'estate, passando un breve periodo nello stadio di crisalide. Ora invece il sonno della pupa sarà più lungo, ammesso che non venga interrotto da qualche uccelletto predatore...

Ma come fare per risolvere l'amletico dubbio con mamma e salvare capr... pardon, cavolaia e cavoli? Semplice: i bruchi, oramai prossimi alla metamorfosi, saranno trasferiti in una gabbietta e nutriti con brassicacee selvatiche e foglie già danneggiate di cavolo, fino a che non si impuperanno; quindi le crisalidi saranno portate in campagna e lì lasciate svernare in un luogo riparato. E l'anno prossimo, per prevenire piccole tragedie, seminerò un filare di cavoli lungo la riva, in maniera da potervi trasferire quelle sconsiderate nidiate di bruchi che tenteranno di insidiare le piante nell'orto di famiglia.

Bruco di Pieris brassicae. Foto di Andrea Mangoni

Zucca ornamentale o funghetto? Foto di Andrea Mangoni.
Il secondo post dedicato alla biodiversità in tempi halloweeneschi non poteva non riguardare l'ortaggio che ne è l'emblema: la zucca, o meglio, la zucca ornamentale!
Prologo. Passeggio per una via centrale di Padova aspettando Roberta, che è a scuola. Passo davanti ad un negozio di frutta e verdura. In vetrina c'è un cesto di zucche ornamentali di ogni forma e colore, ma una... una attira inesorabilmente la mia attenzione. Ha la forma ed il colore di una grossa amanita muscaria. Il fungo delle fiabe cattive, per intenderci. Quello che ci aspetteremmo crescesse sotto la finestra della strega di Biancaneve.
Un cesto di coloratissime zucche ornamentali. Foto di Andrea Mangoni.Ma è una zucca, ornamentale e bellissima. Come lei, tantissime sono le varietà di zucca (Cucurbita maxima) che non sono destinate ad appagare il palato, ma solo gli occhi. Questo tipo particolare, che mi ha affascinato così tanto, è una mini-turbant, una miniatura della francese "Turbante turco". Le zucche si seminano direttamente a dimora, in primavera, magari dopo aver arricchito con del compost maturo il terreno a loro dedicato. In ogni buchetta vanno sepolti 4-5 semi, e delle piantine che nasceranno da ciascun gruppo terremo solo la più bella e robusta. Bisogna lasciare abbastanza spazio tra una pianta e l'altra, almeno un paio di metri, perchè sono rampicanti estremamente robuste e generose che possono raggiungere dimensioni inaspettate.
Come spiegava Giampiero, zucche e zucchine sono di solito interfertili e potrebbe esser necessario interporre centinaia di metri di distanza tra due piante, per evitare che si incrocino; il metodo migliore per evitare che ciò accada consiste però nel bloccare con una molletta od un fermaglio i fiori maschili (che di norma sbocciano prima ) e quelli femminili, per poi aprirli quel tanto che basta per operare un'impollinazione artificiale a mezzo pennello! Questo potrebbe esser l'unico modo di coltivare più varietà insieme e di mantenerne intatta la purezza genetica.
Epilogo. La zucca adesso è a casa nostra, su una mensola, a rallegrare coi suoi colori il mobile del soggiorno. No, non verrà scavata e trasformata in lanterna, ma verrà comunque aperta al momento di estrarne i semi per il prossimo anno. Ma fino ad allora, viva l'allegria dei suoi colori!
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Io sono forse il meno indicato per parlare di zucche, anche se in famiglia da sempre coltiviamo la grossa (ed ottima!!) zucca marina di Chioggia, una sorta di zucca turbante gigantesca e meravigliosamente bitorzoluta, i cui semi tostati sono una delizia! Ci sono però una serie di siti che valgono la pena a mio avviso di essere visitati.
Ad esempio, questa pagina di Giardinaggio.it offre una bella panoramica di alcune delle zucche ornamentali più comuni, mentre nel suo blog Mimma Pallavicini ha spesso parlato delle zucche - e talora ne ha offerto pure i semi!
Infine, in inglese, Pumpkin Nook: vi ci perderete.
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L'imponente e bitorzoluita zucca di Chioggia. Foto di Andrea Mangoni.