Ci sono dei siti che appena li trovate vi viene da pensare: "ecco, questo lo devo condividere con gli altri!"
Oddio, a me capita abbastanza spesso. A volte mi limito a inserirli nella barra dei Link, ma quando ho visto questo sito ho pensato subito che meritava di essere descritto un po' meglio.
Di che si tratta? Semplice: la più pura biodiversità agricola della regione Veneto. Niente di più, niente di meno. Quella biodiversità preziosa, che permetteva al nostro Paese di vantare decine di cultivar per ogni essenza coltivata, e che oggi giorno dopo giorno scompare "grazie" all'apporto delle sementi ibride delle multinazionali, super produttive, di certo, ma prive d'anima e di storia.
Mais biancoperla. Foto tratta dal sito www.biodiversitaveneto.it.Ecco, in questo sito troverete un ricco database delle centinaia di varietà agricole che i secoli e l'esperienza dei contadini locali avevano lentamente e pazientemente selezionato. Grano tenero, mais, vigne, sorgo, patate e tanti altri: tutti caduti o quasi nel dimenticatoio, molti a rischio di estinzione. Ma il sito non è solo un database: dà anche la chance, a chi lo desidera, di richiedere presso l'Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria "N. Strampelli" alcuni semi della propria essenza prediletta, per poi vederla germogliare nel proprio orto o nella propria campagna; l'occasione, in pratica, di contribuire PRATICAMENTE a conservare la biodiversità agricola. Io ci sto facendo un pensierino... c'è un meraviglioso mais di varietà biancoperla che mi attira tantissimo...
Per maggiori informazioni:

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La foto del mais biancoperla è stata tratta dagli archivi del sito succitato.
Un salice bianco capitozzato. Foto di Andrea Mangoni.
Da secoli, fin dal tempo degli antichi Romani, il paesaggio agreste del veneziano è stato caratterizzato da un'entità ben precisa, quella delle "rive": lunghe alberature regolari, costituite principalmente da essenze autoctone, disposte lungo i corsi d'acqua minori (a volte anche temporanei). Le rive erano formate da piante locali, principalmente salici, olmi, ontani, aceri; di tanto in tanto si trovavano sparute farnie, e poi ancora pioppi, platani e robinie. In seguito comparve il gelso, utilizzato nelle alberature perchè grazie ad esso le famiglie contadine potevano praticare la bachicoltura, integrando così il reddito familiare coi proventi derivanti dall'allevamento del bombice della seta.
Una delle principali caratteristiche di questo tipo di coltivazione arborea era costituito dalla ceduazione periodica degli alberi, o meglio, dalla capitozzatura. Di cosa si tratta, per dirlo con le parole di Christopher Brickell:
"La capitozzatura consiste in una potatura drastica di tutta la parte aerea, lasciando spuntare dai monconi i rami sottili che formano una chioma tondeggiante. Alcuni salici vengono capitozzati o ceduati (cioè tagliati alla base) per indurli ad emettere nuovi getti molto colorati. Gli alberi sottoposti a ceduazione sono appropriati ad una sistemazione paesaggistica o informale, come un giardino a bosco, o lungo le rive di un laghetto" (da RHS - Encyclopedia of Gardening).
Insomma, i salici, i pioppi e le altre essenze sottoposte a capitozzatura venivano drasticamente potati, con cicli di 4-7 anni, allo scopo di ottenere sempre nuovi getti e nuovi rami che fornissero la materia perima per la produzione di paleria ed utensili di vario genere, a seconda delle essenze specifiche. Ad esempio, la sanguinella (Cornus sanguinea), chiamata localmente sàndane, era tagliata annualmente a livello del suolo per ottenere getti indirizzati specificatamente alla produzione di scope, mentre dall'acero (Acer campestre), conosciuto col nome locale di ùppio, si ottenevano robusti manici per attrezzi agricoli. I vari salici, o selgàri, erano invece usati per ottenere palerie, per la legna da ardere, ma anche per la produzione di stròpe e stropèi, ovverosia rami lunghi e flessibili che potevano essere usati come legacci per le vigne o anche per la costruzione di cesti intrecciati.
Insomma, una vera e propria arte contadina volta ad ottenere, dalla campagna, il massimo profitto. Certo, oggi gli appassionati di giardinaggio e gli amanti delle piante, in genere, rifiuterebbero, per tutta una serie di ottimi motivi, l'idea di capitozzare un albero, esponendolo a tutta una serie di danni e pericoli; però...
Una caratteristica riva. Foto di Andrea Mangoni.Già, c'è un però. E anche piuttosto grande. Gli alberi delle rive, capitozzati per decenni, finivano per divenire dei veri mostri arborei, creature dai grandi tronchi contorti e ingrossati, ricchi di infinite cavità, che allungavano i rami sottili verso il cielo quasi fossero tante piccole idre mitologiche. E, proprio grazie a quelle cavità del loro tronco, che apparivano di volta in volta come fauci spalancate o orbite vuote, essi diventavano uno dei più preziosi doni dei contadini di un tempo alla biodiversità locale.
Immaginate infatti cosa dovevano apparire agli animali selvatici le rive capitozzate, in una campagna priva di boschi od altre comunità arboree naturali: foreste in miniatura, con anfratti e pertugi in cui nascondersi, procreare e compiere il proprio ciclo vitale. Nei grovigli dei giovani rami nidificavano merli e capinere, i tronchi cavi diventavano nido per cinciallegre e passere mattugie, i picchi tamburellavano i corpi globosi degli alberi alla ricerca di insetti, i moscardini potevano farvi il nido... e così via, centinaia di specie trovavano in queste piante un habitat ideale per la propria sopravvivenza.
E mentre alcuni animali utilizzavano queste piante solo in un determinato momento della propria vita, altri invece erano ad essi legati a doppia mandata per tutta la durata del loro ciclo vitale. Tra questi moltissimi insetti, anche xilofagi (cioè mangiatori del legno); ma la specie che forse più di ogni altra simboleggia la grande importanza delle comunità biologiche che circondavano questi alberi era lo scarabeo eremita (Osmoderma eremita).
Lo scarabeo eremita, un cetonide trichino, deve il suo nome proprio al fatto di avere eletto come suo peculiare habitat le cavità dei grandi alberi maturi. Tutta la sua vita infatti vi avviene all'interno: le larve si nutrono dei detriti organici che vi si accumulano, dal legno marcio alle foglie morte, e gli adulti spesso non si spostano dal tronco in cui sono nati, continuando così per generazioni ad abitare la stessa cavità.
Lungo fino a 3 cm, nero lucente, con un penetrante odore caratteristico, questo coleottero depone le sue uova in questa stagione, e le larve melolontoidi che ne nascono si nutrono del detrito organico per due o tre anni, per impuparsi quindi in autunno e dar vita, con l'arrivo dellatarda primavera, ad una nuova generazione di coleotteri. E' una specie legata in particolar modo alla quercia, ma la scomparsa dei boschi planiziali l'aveva costretta a cercare rifugio proprio nelle rive, dove abbondano gli alberi dotati di cavità adatte alle sue esigenze. Infatti, mentre una quercia impiega fino ad 80 anni per accrescersi tanto da poter ospitare una colonia di questi animali, un salice, un tiglio od un pioppo capitozzato ne impiegano "appena" 30 o 40.
Ma questo è il guaio: oggigiorno, le vecchie pratiche agricole vengono considerate obsolete, le tradizioni si perdono, e con esse vengono in molti casi a scomparire le rive. Non più necessarie alla sopravvivenza familiare, vengono abbandonate se non addirittura eliminate. E con esse finisce con lo scomparire tutto quel mondo di creature che le rive sostentavano, rendendo la nostra campagna più ricca e più bella. Ad esempio, lo scarabeo eremita è diventato sempre più raro, tanto da essere stato incluso nella Direttiva Habitat, legge europea che si occupa di salvaguardare piante ed animali autoctoni. Per cui non posso che lanciare un appello: non lasciate morire le vostre rive! Curatele, mantenetele, piantate nuovi alberi: farete qualcosa di estremamente concreto ed utile per la salvaguardia della biodiversità del nostro Paese.

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Maggiori informazioni su Lucanidi e Scarabeidi:

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Femmina di Osmoderma eremita. Foto di Andrea Mangoni.

Oggi ho trovato, nel forum di Agraria.org, la segnalazione di un prodotto davvero simpatico ed utile, il classico "uovo di colombo" applicato agli abbeveratoi.

si tratta infatti di un piccolo kit che permette di trasformare in un pratico abbeveratoio per piccoli animali qualunque tanica di cui possiamo disporre. Il video postato su youtube è molto chiaro e vale più di 1000 parole; la ditta produttrice è la Tecno Mediana, che si occupa di attrezzature per l'allevamento di cani, gatti ed altri animali. Credo sia una bellissima idea, specie per chi alleva i propri animali in maniera biologica o magari abita lontano dai propri polli e magari non ha tempo di controllarli tutti i giorni.

Ecco quindi il video di youtube. Ciao!

Gallo Leccese. Foto di Gino Di Mitri.
Il nostro viaggio tra le razze ed i ceppi avicoli italiani ci porta oggi nella calda ed assolata Puglia, bagnata dal mare e inondata dai sapori e dai profumi del Mediterraneo.
Galline di razza Leccese isabella. Foto tratte dal libro Zootecnia speciale di T. Bonadonna, anni 40, e riprese dal sito http://www.ilpollaiodelre.com
E' qui che trova la sua origine un avicolo molto particolare, la Gallina Leccese, appunto, un ceppo locale della razza Italiana Comune Autoctona. Selezionata negli anni '30 del secolo scorso presso l'Istituto Tecnico Agrario di Lecce, a partire da uova reperite nei dintorni, essa venne citata da Bonadonna, Pozzi e Trevisani; si trattava di un tipico pollo italiano, paragonabile per molti aspetti alla livornese, dalla forma slanciata, portamento fiero, coda rilevata e falciformi corte, con orecchioni bianchi, tarsi gialli e uova a guscio bianco.
Gallo Leccese cuculo. Foto di Gino Di Mitri.Un latifondista salentino, Raffaello Garzia, ne selezionò un tipo più pesante, a tarsi ardesia, che ricordava forse di più una Minorca. Erano presenti una colorazione detta moresca, corrispondente ad un perniciato molto scuro, una isabella, frumento, e poi la bianca, la cucula, l'argentata. Comunque sia, tutte le varietà di questo ceppo finirono presto nell'oblio, senza lasciar apparentemente traccia di se, per parecchie decine di anni.
Ma di recente un gruppo di esperti, capitanati da Gino Di Mitri, Storico della Scienza, si sta occupando del suo recupero, partendo da esemplari reperiti nel territorio. Armati di santa pazienza, il prof. Di Mitri ed i suoi colleghi hanno ricercato presso masserie sperdute nelle campagne quello che restava dei polli locali, acquistando capi adulti e uova, e selezionando gli animali per tornare ad ottenere in purezza i fenotipi un tempo noti.
Gallo Leccese moresco. Foto di Gino Di Mitri.Allevati con metodi tradizionali, alimentati con orzo e farro, questi avicoli si sono rivelati robusti e frugali, vivaci ed ovviamente perfettamente adattati al clima salentino. Oggetto di un progetto di recupero da parte della Camera di Commercio di Lecce, questo ceppo è un pò il simbolo di quanto si può ottenere ricercando davvero sul territorio ciò che rimane del nostro patrimonio avicolo nazionale.
Per maggiori informazioni:
prof. Di Mitri: ginodimitri@tiscalinet.it
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AVICOLTURA E BIODIVERSITA': LETTURE PER SAPERNE DI PIU'

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Fiore di clerodendro. Foto di Andrea Mangoni.

L'idea di un giardino secondo natura è bellissima, ma spesso ci si scontra con una realtà ben differente, quella di appartamenti con a disposizione una terrazza o solo un piccolo giardino condominiale.

E' questo, da alcuni mesi, anche il mio caso: se da un lato mi rimane sempre l'amata campagna dietro la casa dei miei, è pur vero che oramai da mesi vivo in un piccolo appartamento dotato di terrazzo e con un fazzoletto di giardino condominiale da gestire in comune con gli altri vicini. Che cosa dovrebbero fare, quindi, quelle persone che, come me, non hanno (o non hanno più) grandi spazi a disposizione?

Innanzitutto, mai disperare! Si possono ottenere ottimi risultati anche con pochissimo spazio, e persino se si ha a disposizione solo un terrazzo! L'importante è non perdersi mai d'animo, ma sfruttare al massimo ogni chance.

Artomatiche in terrazzo. Foto di Andrea Mangoni.Nel mio condominio le uniche piante apparentemente rilevanti sono due olivi, un albero di giuggiole ed una palma. Nulla di troppo esaltante, dunque, però è anche presente una bella aiuola con varie erbe aromatiche: rosmarino, salvia, mentuccia, e persino una sparuta pianta di lamponi. Rosmarino, menta e salvia sono, oltre che ottime fornitrici di sapore per la cucina, anche ottime produttrici di generose (seppur limitate nel tempo) fioriture, che possono attirare e nutrire numerosi insetti, soprattutto imenotteri e lepidotteri (come ho potuto scoprire durante la recente migrazione delle Vanesse). Il lampone (Rubus idaeus), invece, oltre alle fioriture ed ai frutti profumati, può offire anche le proprie foglie, molto appetite ai brichi di svariate specie di lepidotteri. Alla base delle romatiche, poi, ci sono numerose piantine di viole, che in primavera si rivestono di fiori che sembrano scvampoli di velluto scuro. Io lo ammetto, ci ho messo del mio... ho infatti piantato un piccolo cespuglio di lavanda, per godere delle sue fioriture, del suo profumo e per fornire qualche altra attrazione per le farfalle, ed infine delle piantine di basilico, i cui fiori vengono spesso visitati dagli imenotteri.

Sempre per la gioia delle farfalle, ho piantato in una zona riparata un piccolo clerodendro (Clerodendrum sp.) ed un caprifoglio arbustivo (Lonicera sp.). Non si tratta di piante "ortodosse" per il giardino delle farfalle, perlomeno il clerodendro... ma ho notato che i suoi fiorellini tubulari sono spesso apprezzati dai lepidotteri diurni. In un angolo soleggiato ho invece piantato dei gigli che fanno da riparo ad alcune pianticelle di beccabunga (Veronica beccabunga), trovate in un prato veneziano, che in verità non sembrano molto intenzionate a sopravvivere, ma chissà...

Il terrazzo, dicevamo. Ovviamente ho anche qui delle aromatiche: timo, basilico, nepetella e balsamita, tutte dalle fioriture molto apprezzate dagli imenotteri. Ma ci sono anche cose più interessanti, come lo spazio per una serie di piante autoctone.

I vasi dei miei esperimenti. Foto di Andrea Mangoni.Ad esempio, sto usando alcuni vasi come seminiere per le mie nuove piantine di margherita dei campi, trovate lungo una strada di campagna; ma per godere in maniera differente delle spontanee, ho utilizzato un grande vaso, riempito per tre quarti di terreno "di scarto" prelevato da altri vasi, e vi ho piazzato sopra alcune piccole zolle prelevate lungo una strada abbandonata, e ospitanti margherite, caglio zolfino, cagliolo e trifoglio rosso; l'effetto finale sarà quello di avere in terrazzo una fettina di prato spontaneo in miniatura, con la possibilità di venire sorpresi dalla nascita di una pianticella inaspettata; in più le piante prelevate con la zolla hanno avuto ben pochi problemi di attecchimento, ed hanno continuato a fiorire e a produrre semi che utilizzerò per reintrodurre alcune essenze spontanee nella mia campagna. Oltre a questi c'è anche un vaso con delle belle iris (Iris germanica), ricordo di un viaggio in Toscana, e delle roselline mignon.

Volendo, potrei anche sistemare in terrazzo un grande vaso con qualche cespuglio, come ad esempio prugnolo, buddleja o biancospino, e persino qualche alberello come farnie e olmi, educati con frequenti potature... ma al momento basta così, anche perchè già ora le ferie potrebbero risultare un periodo problematico. In futuro... chissà? Magari anche un piccolo stagno pensile...

L'aiuola delle aromatiche. Foto di Andrea Mangoni.

Frittatina alle erbe aromatiche. Foto di Andrea Mangoni.
La biodiversità non è un concetto astratto, come molti pensano, ma può al contrario essere qualcosa di estremamente pratico: sono profumi e sapori inconsueti, che vuoi per ignoranza, vuoi per pigrizia, pochi si impegnano ad adoperare per rendere la propria tavola un pò più singolare e piacevole.
Un esempio è questa semplicissima ricetta che voglio proporvi, una frittatina fatta con ingredienti semplici e naturali, ma con l'aggiunta di un paio di essenze raramente riscontrabili nelle nostre tavole.
Ingredienti per una persona:
  • un uovo di gallina di allevamento biologico o all'aperto. Queste due tipologie di allevamento garantiscono agli animali di poter usufruire di spazi sufficienti a garantire loro una vita degna e di dare libero sfogo ai comportamenti tipici della loro specie. Se possibile, scegliete uova di razze autoctone (io ad esempio ho usato un ovetto delle mie Polverara): spesso sono più piccoli di quelli in commercio, ma di norma la percentuale di tuorlo è superiore; inoltre il sapore è di solito più intenso e delicato allo stesso tempo.
  • Parmigiano a piacere;
  • 3 steli di timo fresco;
  • una foglia di balsamita (Balsamita major). La balsamita è una pianta della famiglia delle Asteracee, le cui foglie profumano intensamente di menta ma il cui sapore è amaro. E' ottima se usata con parsimonia in arrosti, frittate e tortelli. Con un pò di fortuna potrete trovarla anche nei garden center o nei banchetti del mercato.
  • Allium vineale o aglio delle vigne. Foto di Andrea Mangoni.2 bulbi di aglio selvatico o aglio delle vigne (Allium vineale). Questa particolare specie di aglio si riconosce facilmente perché i lungi steli portano molto spesso non i fiori, ma grappoli sferoidali di bulbilli rossi, che spesso germinano ancora attaccati al gambo. Sebbene i bulbi di quest'aglio siano molto piccoli, sono intensamente profumati ed il loro sapore è molto delicato. Attenzione, però! Evitate di raccogliere erbe selvatiche se non siete ASSOLUTAMENTE certi della loro identificazione e del fatto che siano commestibili!
  • mezza tazza da caffè di pane grattuggiato;
  • una tazza da caffè di latte;
  • olio;
  • sale.
Lavate bene timo e balsamita, quindi eliminate i gambi del timo e tagliate a piccoli pezzi la fogliolina di balsamita. Visto il sapore molto intenso di quest'ultima, potreste anche non utilizzarne la foglia intera, ma solo una parte. In un piatto fondo mettete l'uovo aggiungendo il formaggio, il sale, il pane, il latte e le erbette; quindi con una forchetta mescolate ed amalgamate energicamente il tutto. A parte, lavate e spellate l'aglio; mettete una padellina sul fuoco, e preparate un soffrittino con l'olio ed i due bulbi d'aglio tagliati a dovere. Quando il soffritto è pronto versate gli altri elementi, amalgamate appena, mettete il coperchio alla padellina e cuocete per qualche minuto, fino ad ottenere la doratura desiderata.
Et voilà! Ecco un piatto velocissimo, dal sapore delicato e inconsueto, che valorizza nel contempo ingredienti naturali e tradizionali, per la delizia del palato. Dovete provarla!
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Femmina bruna di Mantis religiosa. Foto di Andrea Mangoni.

Nei prati assolati dei paesi mediterranei non è difficile incontrare, in questa stagione, le prime, saltellanti mantidi religiose (Mantis religiosa). Stanno uscerndo adesso dall'ooteca, quel complesso ed accogliente nido che la loro madre ha costruito col proprio corpo e che le ha protette per tutto l'inverno da freddo, gelo e umidità. Le attende un estate breve e intensa, in cui dovranno crescere rapidamente facendo strage, attorno a sè, di piccoli insetti e - talvolta - anche di propri consimili.

Nota fin dai tempi più antichi, la mantide ha da sempre affascinato l'uomo per il suo aspetto inconsueto e per le sue particolari abitudini riproduttive. La sua peculiare posa di attesa della preda, così simile a quello di un essere umano in preghiera, le ha valso nomi diversamente correlati alla religione: l'appellativo "religiosa" è solo l'ultimo di una lunga serie, che vanno da "pregadio" a "indovino", da "veggente" a "strega". Eppure, l'atteggiamento della mantide è tutt'altro che volto alla preghiera: in quella posizione particolare, infatti la mantide attende che le passi a portata di... zampa una preda: un insetto o anche a volte, un piccolo vertebrato, per allungarsi fulminea ed afferrare il malcapitato con le zampe anteriori, modificate per la presa (zampe anteriori raptatorie). La velocità raggiunta dalla mantide nella fase di attacco è impressionante: a volte tutto si svolge in un venticinquesimo di secondo!

Femmina bruna di Mantis religiosa mentre fa toeletta. Foto di Andrea Mangoni.La mantide adulta può raggiungere gli otto centimetri e predare persino piccole lucertole, ma le giovani devono compiere, per accrescersi, tutta una serie di mute, processi tramite i quali gli insetti grazie ad un complesso sistema ormonale generano un nuovo esocheletro abbandonando quello vecchio e diventando più grandi. Alla fine dell'estate, con l'ultima muta, la mantide acquisisce, oltre alle ali, la facoltà di riprodursi. E qui viene il bello: da sempre le femmine di questa specie vengono tacciate di essere delle feroci killer di poveri mariti innamorati... ma è davvero così? La risposta è un pò più complessa di quanto si possa credere.

Infatti, sebbene la mantide non disdegni di trastullarsi, durante l'amplesso, mangiando un maschietto particolarmente appetitoso, è anche vero che di norma in natura l'accoppiamento di due mantidi termina con pari soddisfazione per entrambi i partner, che si lasciano ancora vivi e vegeti. L'alta frequenza degli accoppiamenti "cannibali", verificata da certi autori in condizioni di cattività, è spesso da attribuirsi ad una cattiva alimentazione della femmina. C'è da dire anche che il maschio della mantide offre validi motivi, alla propria compagna, per farsi divorare.

Primo, è un bel concentrato di succose proteine: cosa che fa effettivamente gola ad una femmina che si appresta a deporre diverse centinaia di uova. Secondo, divorando la testa del maschio la femmina ne elimina i gangli nervosi inibitori, lasciando libertà d'azione ai centri nervosi toracici ed addominali che controllano il comportamento riproduttivo... in pratica, un maschio decapitato è un maschio più focoso (attenti, vale solo per le mantidi!!).

Sia quel che sia l'esito dello sposalizio, la femmina si appresta dopo pochi giorni a deporre le uova. Allo scopo essa cerca un posto riparato, sotto una roccia sporgente, un ramo o un groviglio di sterpi; quindi inizia meticolosamente a deporre le uova circondandole con una sostanza spugnosa che secerne lei stessa e che "monta a neve" con i cerci addominali, fino ad ottenere un rivestimento costituito da tante camere d'aria che proteggeranno le uova dagli eventi atmosferici e da molti predatori, rivestimento che prende il nome di ooteca, appunto. E dopo un inverno ed una primavera passati a svilupparsi, la nuova generazione compirà il proprio destino venendo alla luce in giugno e donando ai nostri prati una nuova stirpe di predatori lillipuziani.

Ninfa verde di Mantis religiosa. Foto di Andrea Mangoni.
Gruppo di Tacchini Azzurri. Foto di Bruno Rossetto.

Molte sono, come ho già detto più volte, le razze avicole italiane che sono apparse per un breve periodo sul nostro territorio, per poi svanire nel nulla. Tra queste vi sono anche alcune razze di tacchini, selezionate nel nostro Paese e poi cadute nel dimenticatoio col passare degli anni.

In particolar modo oggi vi vorrei parlare del Tacchino Lilla di Corticella. Il Lilla di Corticella era stato selezionato dal prof. Ghigi, a Rovigo (nella Stazione Sperimentale di Avicoltura), a metà del secolo scorso; in seguito ne affidò la selezione ad una sua allieva, Anita Vecchi, che operava a Corticella (BO): da qui, in suo onore, la razza prese il nome di Lilla di Corticella.

Si trattava di animali selezionati a partire da un gruppo di colorazione blu (Slate), che produssero prole per metà blu, un quarto bronzata e un quarto di colore azzurro-lilla pallido, quasi acciaio, con tarsi rosei. Il margine di alcune penne (groppone, sopracoda, fianchi) tendeva al bianco. Il peso era compreso tra i 9 ed i 10 Kg per i maschi, e tra i 6 ed i 7 Kg per le femmine. Ma con l'introduzione degli ibridi da allevamento a piumaggio bianco, la razza venne a perdersi (per maggiori informazioni, visitate questa pagina de "Il Pollaio del Re").

Negli anni '90, però, il sig. Bruno Rossetto, esperto allevatore del padovano appassionato di avicoli, presentò nel corso di una serata presso l'allora Istituto San Benedetto da Norcia, a Padova, alcuni tacchini dal piumaggio azzurro davvero particolari. Si parlò quindi di una possibile sopravvivenza della razza, ma era davvero così?

Tacchini Azzurri. Foto di Bruno Rossetto.In realtà, stando alla testimonianza del sig. Rossetto, il ceppo di tacchini azzurri da lui allevati proveniva dall'incrocio tra due suoi ceppi di tacchini, uno a livrea bianca ed un altro a livrea nera. Non è certo possibile escludere che in essi vi fossero, latenti, i geni dell'antico Lilla di Corticella, ma è altrettanto possibile che si sia trattato di un evento completamente slegato dalla storia di quella razza.

I Tacchini Azzurri di Bruno Rossetto avevano piumaggio grigio chiaro, con alcune penne della regione posteriore del corpo bordate di bianco; erano inoltre presenti tracce di colorazione marrone sulle ali e sulla coda, oltre ad alcune rarissime penne nere nella livrea. I tarsi erano grigio-rosei. La differenza maggiore era però nel peso: 6-7 Kg per i maschi, 3-5 Kg per le femmine. Si può immaginare dunque ragionevolmente che questi animali non fossero, se non indirettamente, legati al Tacchino Lilla di Corticella.

Con l'abbandono dell'attività di allevatore da parte del sig. Rossetto, il ceppo in questione è andato quasi perduto. Attualmente, per quel che mi è dato sapere, gli unici animali esistenti riconducibili ad esso dovrebbero essere i capi in possesso dell'associazione "La Fattoria in Città", a Padova.

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Le foto a corredo dell'articolo sono state scattate negli anni '90 dal sig. Bruno Rossetto. Vengono qui pubblicate per sua gentile concessione.

Una tacchina azzurra assieme ad un maschio di Bronzato dei Colli Euganei. Foto di Bruno Rossetto.

Estate in arrivo, e con essa fiori a profusione, idilli di aromi e colori che attirano e ubriacano farfalle colorate come danzatrici balinesi coinvolte in una danza sfrenata... O forse no? Ma davvero tutti fiori sono ugualmente graditi alle farfalle?

La domanda, ovviamente retorica, ha una sola risposta: un secco NO. Sono molte le piante che questi insetti snobbano passando oltre senza indugio, e tra queste, ad esempio vi sono le bellissime rose o i papaveri, fiori da ditteri e imenotteri più che da lepidotteri. Esistono però delle piante che, notoriamente, vengono considerate da questi insetti delle vere e proprie stazioni di servizio, in grado di trasformare il più anonimo dei giardini in un ricercatissimo bar per farfalle. Ecco quindi una selezione di cinque (più una!) piante che faranno diventare il vostro angolo verde (giardino o terrazzo che sia) un raduno coloratissimo di lepidotteri felici.

  1. Palma d'onore alla Buddleja (Buddleja davidii), il cui nome comune (albero delle farfalle) parla da solo. Ne ho già parlato in questo blog, ma vale la pena ricordarlo: pochissimi fiori sanno attirare le farfalle come le lunghe spighe variopinte della buddleja. La potrete trovare color ciclamino, bianca, viola scuro, quasi nera; se avete poco spazio optate per la varietà nanho blue, che rimane piccola ma che regala la stessa abbondantissima fioritura delle cultivar più grandi. Tagliando i fiori mano a mano che seccano, potrete prolungare la fioritura da luglio fin quasi ad ottobre. Ogni tre anni poi, in inverno, non mancate di potarla energicamente, accorciando i rami principali ad un terzo della loro lunghezza: vi ripagherà irrobustendosi e mantenendosi compatta nella forma e nella fioritura.
  2. Le lavande (Lavandula sp.) sono un'altra scelta davvero ottima. Certo attirano di più api e ditteri, ma moltissime farfalle la adorano, dalla podalirio alle cavolaie, dalla sfinge passera alla Vanessa dell'ortica. Le fioriture continuano per tutta l'estate, e anche qui possiamo trovare cultivar per ogni gusto e quasi di ogni dimensione. A fine fioritura andrebbe potata accorciando i rami e lasciando su ognuno solo un paio di gemme. Dicono sia anche ottima per delimitare un'area del giardino in cui cani e gatti non debbano andare: pare che ne detestino il profumo. Io però non posso confermarlo!
  3. I ligustri (Ligustrum sp.) sono arbusti molto usati nelle siepi, a causa della bellezza del fogliame e dei fiori. Ne esistono in commercio molte specie e cultivar, ma quelle spontanee in Europa, ovvero L. vulgare e L. lucidum, sono le migliori per i nostri scopi... in fondo dobbiamo pur cercare di diffondere le nostre essenze spontanee, no? Tra maggio e giugno questi cespugli si ricoprono di pannocchie trifide di fiori bianchi, molto profumati, che attirano nugoli di insetti, tra cui molte farfalle e falene. Tra queste ultime, la sfinge del ligustro vi depone le uova ed i suoi bellissimi bruchi screziati di verde e d'argento si nutrono delle sue foglie. In autunno, i fiori vengono sostituiti dalle bacche nerastre. Attenzione però! Tutte le parti della pianta sono velenose! Oltre che in una siepe, provate a lasciare crescere liberamente qualche esemplare solitario: diventerà un magnifico punto d'attrazione in giardino.
  4. La lantana (Lantana camara) è una specie a carattere arbustivo che in alcune regioni del mondo è addirittura infestante. Da noi il problema non sussiste, perchè la lantana risente degli inverni troppo rigidi e anzi, andrebbe protetta spostandola in una serra fredda o anche solo ricoprendola col classico tessuto non tessuto; l'importante è garantirle una temperatura superiore a 0°C, meglio ancora se riuscissimo a garantirle 6-12°C. I fiori usualmente sono portati in piccole ombrelle bicolori, ciclamino e giallo o arancio e giallo; non mancano cultivar completamenmte gialle. Amano una esposizione soleggiata e innaffiature leggere e costanti. Oltre che a cespuglio, possono essere educate ad alberello. Si può riprodurre facilmente da seme, tenendo da parte le bacche nere prodotte dopo i fruttio, oppure per talea semilegnosa in estate. Per le potature, si possono accorciare i rami in autunno di circa una decina di cm.
  5. Gli aster (Aster novae-angliae o A. novae-belgi), i settembrini tanto cari alle nostre nonne, necessitano di terreni leggermente acidi e sabbiosi per dare il meglio di sè. le loro fioriture, in settembre, regalano pasti luculliani a tutte quelle farfalle, come colie, cavolaie e licenidi, che si attardano fino all'inizio dell'autunno dopo essere nate in estate. Si tratta di erbacee perenni che rimangono virtualmente invisibili per lunghi mesi, salvo poi stupirci con la loro meravigliosa fioritura.

Ed ecco qui quindi le cinque piante che più di tante altre rappresentano, secondo me, il... gotha delle essenze preferite dalle farfalle. Mettetele in giardino e vedrete che questi coloratissimi insetti non passeranno più da voi senza fermarsi!

Come? Ne avevo promessa un'altra? ...E allora sotto! L'ultima pianta che vi voglio consigliare oggi è l'edera (Hedera helix). So che potrebbe sembrare strano, in fondo pochi penserebbero di associare questo pur bel rampicante con farfalle o fiori... eppure, l'edera ha un grande vantaggio rispetto a molte piante: fiorisce in autunno, fornendo così un'importante occasione per molte specie svernanti, come le Vanesse, di fare scorta di cibo ed energie prima del lungo letargo invernale, che spesso si può svolgere proprio tra le foglie dell'edera stessa. Per favorire la fioritura dell'edera occorre darle modo di arrampicarsi verso l'alto liberamente. Io consiglierei anche di lasciarla crescere su una griglia distante una decina di cm dal muro di casa: nell'intercapedine creatasi tra muro e pianta potranno svernare svariati insetti, e qualche merlo o capinera potrebbe decidere di farvi il nido. E se è vero che non sono farfalle, rappresentano però comunque delle magnifiche "paia d'ali" da ospitare in qualunque giardino!!

Polluce immortalato nel momento del canto. Foto di Andrea Mangoni.

La primavera è passata, il caldo torna a farsi sentire, i lavori nell'orto e nel giardino chiamano... e in pollaio? Come stanno andando le cose?

Quest'anno mi sono preso per tempo e mi sono preparato con cura alla stagione riproduttiva, costruendo 2 nuovi recinti, uno per ognuno delle razze che voglio riprodurre in purezza. I recinti non sono troppo grandi, purtroppo, circa 25 metri quadrati l'uno, ma la densità di popolazione è bassa, per ora (7 animali in uno, 4 in un altro), per cui ogni animale ha abbastanza spazio per vivere degnamente, razzolare, litigare, rotolarsi nella polvere e fare quello che gli pare. In inverno, poi, quando non ci saranno più culture da... salvare, i polli potranno tornare a vagare nel grande prato antistante i recinti, come gli altri anni.

Irene e la Gigia. Foto di Andrea Mangoni.

Per ombreggiare i miei polli ho usufruito di alcune viti preesistenti, che adesso stanno formando una meravigliosa tenda verde che crea una graditissima ombra nella calura estiva. All'interno di ciascun recinto ho poi piantato due cespugli, un cerro (Quercus cerris) ed un sambuco (Sambucus nigra). Ora sono piccoli, ma l'idea è quella di fornire rifugio ed ombra supplementari ai miei polli, oltre a qualche integrazione alla dieta sotto forma di bacche di sambuco. Mentre i due sambuchi sono autoctoni, i cerri vengono dalla toscana, e sono frutto di due belle ghiande raccolte nel grossetano.

La vecchia Circe, col ciuffo di piume a penzoloni. Foto di Andrea Mangoni.Ma tornando a noi e ai principali protagonisti di questo post, cioè i miei Polverara, vediamo un pò com'è la situazione attuale. Di tutti i pulcini nati l'anno scorso, ho tenuto solo 3 esemplari, quelli che (per un motivo o per l'altro) mi sembravano avere le migliori caratteristiche di razza. Il gallo, Polluce (Pippo per gli amici) è nato a settembre dell'anno scorso, ed è figlio di Leonida. Della stessa covata ho tenuto anche la Gigia, ritornata a casa poco tempo fa, mentre più vecchia di qualche mese è Nerina Jr, nata nel maggio 2008 e figlia della gloriosa e compianta Nerina. Sono purtroppo venute a mancare invece due delle anziane riproduttrici, Tea e Titta; in compenso le altre "vecchiette", come Circe e Medessa, sembrano cavarsela abbastanza bene ed hanno deposto discretamente nei mesi scorsi. L'unica che invece stenta a deporre, quest'anno, è Irene... che sia la vecchiaia incalzante?

Pulcino di polverara bianco di tre settimane. Foto di Andrea Mangoni.I pulcini delle prime deposizioni hanno avuto invece dei problemi: due sono stati colpiti da perosi, una malattia metabolica correlata a carenza di manganese, che finisce col deformare gli arti inferiori; uno dei due piccoli è purtroppo morto. Quelli della terza covata invece sono stati tutti uccisi, senza motivo, dalla chioccia: purtroppo capita, quando si lascia fare alla Natura. Tutto sommato però stanno crescendo bene, ed ora come ora ci sono 4 piccoli infami che stanno razzolando contenti nel loro gabbione assieme ai "fratellini" Jersey Giant e ibridi. Ovviamente il gabbione serve per difenderli dagli attacchi dei ratti: l'anno scorso mi hanno fatto sparire più di un piccolo, ed hanno decapitato anche diversi polli adulti, non ultimo il già citato Leonida.

Pulcino di polverara nero di due settimane. Foto di Andrea Mangoni.

In più, nell'incubatrice e sotto una chioccia si stanno sviluppando una dozzina di altre uova, tutte "figlie" di Nerina Jr, Medessa e Circe. Tra una settimana vedremo come andranno le schiuse!

Polluce e Medessa. Foto di Andrea Mangoni.Come procederò quest'anno? Semplice: il primo obiettivo sarà quello di arrivare ad avere due galli riproduttori e una ventina di galline. Gli animali saranno selezionati in modo che abbiano tutti la cresta a cornetti e gli orecchioni il più possibile bianchi. Manterrò invece in eterozigosi il carattere della pelle gialla/pelle bianca, e cercherò di occuparmene l'anno prossimo. Inoltre cercherò di diffondere questo ceppo tra diversi appassionati: già l'anno scorso ho ceduto tre galli ad alcuni amici, assieme alle mie galline Polverara di ceppo Trivellato, per far sì che potessero riprodursi e constituire così un "serbatoio di geni" prezioso; in più sei uova sono finite a Frosinone ed altre andranno (spero presto) a Camposampiero. Insomma, cercherò di diffondere il più possibile il prezioso patrimonio genetico ereditato dal sig. Rossetto.

Medessa. Foto di Andrea Mangoni.Nel frattempo, mi fermerò ogni tanto a rimirare il mio amico Pippo, prode difensore di gallinelle indifese, che con coraggio si frappone fra esse e qualunque pericoloso nemico... come ad esempio i miei stivali. Di solito mi abbasso subito e provo ad accarezzarlo, così mi vede in faccia e si accorge dell'errore... ma qualche volta è più veloce di me. Avete mai assaggiato una speronata di gallo , così, senza preavviso, nei polpacci? Ahio!!

Polluce, in tutto il suo chicchiricheggiante splendore, e le sue ben protette spose. Foto di Andrea Mangoni.